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@AleCarchia

Cambio in corsa

Una fine scontata, ma per certi versi imprevedibile secondo la storia recente della politica americana, la non rielezione di Trump, scuote per la totale indifferenza che ha destato.

Nulla di nuovo sul fronte occidentale, tutto cambia e tutto resta uguale, questa è la lettura che viene maggiormente ripresa dai media di tutto il mondo. La mancata riconferma per il secondo mandato di Trump sa di sconfitta dei Repubblicani anziché avere il sapore di vittoria dei Democratici.

Dal 1992 non si vedeva qualcosa di simile, da George Bush Senior e la sua mancata ri-elezione alle presidenziali, dopo l'elezione vinta nel 1988.

L'allora leader Repubblicano si ritrovò a dover interrompe la sua esperienza alla Casa Bianca dopo i primi quattro anni di presidenza caratterizzati da una crisi economica e monetaria che rese necessario un aumento delle tasse, vero tallone d'Achille per l'amministrazione che si è protagonista della prima Guerra del Golfo.

Una titanica operazione che però portò a risultati marginali: Quasi settecento mila soldati statunitensi furono inviati, tra l'agosto del 1990 e il febbraio del 1991, in missioni prevalentemente di controllo e messa in sicurezza dei pozzi petroliferi in Kuwait. L'occupazione del piccolo emirato del Golfo Persico da parte del Presidente iracheno Saddam Hussein, scatena nella comunità internazionale sdegno e timori, per la prevaricazione nazionale, ma soprattutto spaventa i vicini arabi e spinge i paesi Europei e gli Stati Uniti a mostrare la forza per rivendicare il controllo su una regione di fondamentale importanza in ambito politico, geografico ed energetico. Gli Stati Uniti riportarono il maggior numero di vittime tra i soldati, mentre resta quasi impossibile stimare il numero di caduti iracheni tra militari e civili.

I postumi del conflitto si strascinarono per decenni, per certi versi andando a prodursi nei fatti dell'11 settembre 2001. Le sanzioni e i commissari dell'ONU incaricati a partire dal 1991 di accertare la dismissione di armamenti non autorizzati si rivelò controproducente e da un certo punto di vista, spinse sull'acceleratore del conflitto. L'obiettivo di ripristinare l'egemonia di Kuwait con il favore dell'Arabia Saudita fu raggiunto senza vedere il coinvolgimento diretto di Iran e Israele, i quali intenti furono da subito quelli di non impegnarsi direttamente per evitare il coinvolgimento in un conflitto che si sarebbe tramutato in guerra religiosa rendendo impossibile una rapida risoluzione.

Si dovette parimenti rinunciare ad un concreto attacco al cuore dell'Iraq per ribaltare il governo del Comandate Hussein, con l'intenzione di non creare una ennesima polveriera in medio oriente. Di fatto l'azione fu posticipata al 2003, questa volta il protagonista fu George Bush Junior, figlio dell'ex-presidente ora alla Casa Bianca, a seguito della stasi bellica in quell'area sotto il governo Clinton. La seconda Guerra del Golfo fu di fatto una logica conseguenza del mezzo in-successo della prima, oltre ad una naturale necessità di risposta all'aggressione subita nell'attacco terroristico del World Trade Center, andandosi di fatto ad inserire nel contesto di contrasto al terrorismo internazionale intrapreso dall'inizio della campagna in Afghanistan, conflitto ancora in via di risoluzione.


Qui si inserisce la figura dell'ultimo ormai ex presidente degli Stati Uniti d'America, Il 29 febbraio 2020 scorso infatti a Doha in Qatar è stato siglato uno storico accordo, rispondente ad uno dei punti della campagna elettorale del Tycoon prima delle elezioni del 2016. L'obiettivo del trattato impegna le due parti, Usa e Afghanistan, ad una risoluzione, che si concretizzi con l'abbandono da parte delle truppe americane del territorio afgano in 14 mesi, un passo epocale per la politica estera americana.

Il 10 marzo dello stesso anno, viene annunciato il ritiro di 3400 soldati americani oltre allo scarceramento di 1500 talebani, il tutto nel solco di una politica in controtendenza rispetto a quella a cui abbiamo assistito negli otto anni di presidenza Obama.

Un paradosso difficile da smontare, come un presidente dal grilletto facile sia riuscito dove invece ha fallito un Nobel per la Pace è qualcosa che nessun analista potrà sino in fondo farci comprendere, fatto è che gli Stati Uniti hanno di fatto invertito la rotta, soprattutto se si considera il risparmio economico e la conta dei decessi tra le fila dei soldati impegnati nei diversi fronti.

Stando ai risultati delle 59° elezioni alla Casa Bianca il risultato appare scontato, Trump ha perso, in virtù di una vittoria controversa nel 2016, macchiata dall'onta della corruzione di internet, che ha di fatto influenzato l'opinione pubblica, specialmente su temi economici, patriottici e di contrasto all'immigrazione.

La mancata rielezione è da rintracciare specialmente in una disattenta e criminale gestione da parte della presidenza Trump della pandemia da Coronavirus. Il neanche troppo velato negazionismo, l'avversione alle regole sanitarie e una poco pudica ostentazione delle differenze sociali, quali unico vera forbice tra cura rapida e sofferenza sono state le carte sulle quali i Democratici hanno saputo e potuto fare leva. La mala gestione è evidente, specialmente perché perpetuata di fronte ad una comunità internazionale oltremodo attenta e pronta a censurare; le cure elitarie di cui si è reso protagonista hanno distanziato alcuni elettori dal loro leader, proprio negli ambiti sociali su cui aveva sempre fatto maggior leva. Il tutto peraltro si è inserito nella mancata gestione della disparità razziale che ancora permea la quotidianità della vita americana: gli abusi della polizia, le violenze e le manifestazioni hanno contribuito ad accrescere l'attenzione sul tema.

Al grido Black Lives Matter si sono levati sportivi, attori, influencer e politici, rendendo difficile una risposta realmente distensiva, di fatto palesando la mancata propensione di una larga fetta degli americani ad accettare alcune differenze, spianando la strada ad uno scontro frontale.


La crescita delle tensioni interne, la corsa agli armamenti dei cittadini comuni, in guerra contro il diverso, hanno fatto pendere una bilancia, ripianata si spera il giorno dopo le elezioni grazie agli indici di borsa in positivo e ad una sensazionale notizia ad orologeria sul vaccino miracoloso pronto alla distribuzione.

Appare ovvio che al momento dell'insediamento del 46° Presidente degli Stati uniti d'America il prossimo 20 gennaio 2021, sarà il più anziano presidente della storia americana, una controtendenza del suo partito, che nasconde però una sorpresa tutt'altro che inaspettata. Dietro Biden, vi sarà di fatto il segno di continuità rispetto alla presidenza Obama, la prima donna Afro-Indio-Americana a ricoprire il ruolo di vicepresidente degli Stati Uniti, di fatto l'erede del partito, pronta a raccogliere il testimone e a diventare l'icona del nuovo corso democratico.

Il tutto è reso oggi ancora più traumatico dalla mancata accettazione della sconfitta da parte del presidente uscente, pronto a dare battaglia.

Sono già cominciati i ricorsi e i ri-conteggi, come di fronte ad un Juve-Napoli qualsiasi.

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