Al bando l'astensionismo, il conservazionismo talebano degli italiani è crollato sgretolando certezze di 40 anni sull'intoccabilità della Costituzione.
Un'affluenza di poco superiore al 50% degli aventi diritto al voto ha permesso di dotare il parlamento italiano delle forbici tanto agoniate dal M5S, con le quali sfoltire numericamente il numero di rappresentanti presso camera e senato a partire dalla prossima legislatura.
Sì, quindi al taglio dei parlamentari... Sì quindi ad una riforma i cui effetti si vedranno verosimilmente solo dopo le preventivabili elezioni della primavera 2023, stando ad una fine naturale del Conte-bis rafforzato in pratica dagli esiti delle elezioni del 20 e 21 settembre.
Quasi il 70% dei votanti ha detto un Sì, ipotizzabile per il quesito semplificato nella sua narrazione agli elettori.
Restano i dubbi sulla fattibilità stando all'attuale legge elettorale, sull'incompletezza di una riforma che non prevede modifiche per quanto concerne commissioni parlamentari, rappresentanza, controllo sulle nomine, effettivo risparmio sui conti pubblici ed esigenza di un low-profile in termini di super-compensi.
Il referendum 2020 ha quindi segnato la storia della Repubblica Italiana, imprimendo di fatto una decisa e ferma volontà di ritornare sui propri passi.
L'elettorato questa volta ha potuto decidere svincolato da preconcetti politici, in quanto i promotori sono certamente stati nelle fila dei pentastellati, ma hanno incontrato franchi tiratori e opinion leader a favore della riforma in diversi schieramenti.
Il quesito referendario ha quindi avuto autonomia nell'autodeterminazione rispetto l'elettorato, non vincolato dagli esiti politici locali, poco influenzato persino dagli esponenti di partito, ma maggiormente attratto dai numeri del risparmio lordo sulle casse delle stato e quindi dei contribuenti (https://www.alecarchia.com/post/election-gate).
La chiave di volta si può rintracciare nella maggiore semplicità, schiettezza ed immediatezza della proposta, aggravata dalla difficile diatriba che il fronte del NO ha provato in queste settimane a sottoporre alla platea, di difficile ratio, quindi non chiaramente leggibile.
Se da qui bisogna partire, ha detto giusto l'ex presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni: "Io ho votato sì al Referendum... perché è una cosa giusta, ma non è sufficiente."
L'adesso opinionista del Foglio interpellato a Quarta Repubblica a margine dell'analisi del voto, apre così il suo intervento, di fatto palesando quanto questa affermazione della linea 5 Stelle sia stata trasversale, raccogliendo i delusi dalla politica, tanto quanto i riformisti di lungo corso.
Di fatto ha creato una spaccatura soltanto nel bipolarismo italiano, palesando una difficoltà di coordinamento tanto nel centro-destra quanto nel centro-sinistra, incapaci di slegare il quesito referendario da una affermazione politica.
Il segnale lanciato era chiaro, abbassare i costi di una politica, ancorata ad una rappresentazione datata e non più attuale, appesantita dal debito e incancrenita dagli sprechi.
Una sorta di crociata grillina che ha riscosso anche in regioni senza alcun sostegno a quel colore politico, una valanga di consensi, forse assimilabili oggi più che prima ad un populismo diretto e puro, senza la mediazione della politica, a snaturarne i contenuti.
Andando avanti nella sua analisi l'ex Ministro ricorda come "...anche noi del Centrodestra avevamo fatto una riforma che riduceva il numero dei parlamentari, ma cerano anche altre cose: l'elezione diretta del premier. Probabilmente era troppo complicata e venne bocciata. Questa era semplice, va bene ma non basta."
Ribadendo un concetto quindi, che forse non vogliamo sentire, siamo elettori distratti, semplici e facilmente influenzabili. Farlo 20 anni prima sarebbe stato forse più opportuno, col senno di poi si sarebbero potuti risparmiare milioni di euro, evitare che qualche elemento varcasse la soglia di Montecitorio e Palazzo Madama, dare un maggior rilievo alle autonomie locali, eleggere direttamente un Presidente del Consiglio evitando la sterilità della politica, investendo sul coinvolgimento del cittadino, limitando la sovrapposizioni di poteri in seno a Regioni e Stato, ridimensionando il ruolo del Presidente della Repubblica.
Insomma un lifting totale, che è stato bocciato con proporzioni simili per inverso all'esito del Referendum appena concluso.
Esiste quindi una profonda amarezza, che accomuna i veri riformisti, che comincia a pesare adesso, un vorrei ma non posso della politica. Lo si vede ogni giorno, in Europa ma non solo e pure quando si riesce a coinvolgere il cittadino lo si fa solo in modo marginale e superfluo.
Sicuramente tutto questo è un punto di partenza, una miccia che ci si augura possa far lavorare meglio i due rami del Parlamento, con i suoi membri alla ricerca del momento giusto per potersi sedere di nuovo quando la musica sarà finita.
Il gioco vedrà qualcuno sedere a terra e ci si augura che i 18 milioni di persone che hanno votato Sì, potranno essere garanti di una nuova politica in cui la selezione all'ingresso sarà più attenta. Meno parlamentari certo, a patto che a perdere il posto siano i Razzi e i Toninelli, Scilipoti e Pillon, Adinolfi, Sibilia, Taverna... chi più ne ha più ne metta.
Sarebbe utile una sorta di selezione naturale quindi, per permettere ad un parlamento più snello e performante di lavorare meglio per ottenere di più e chissà... renderci orgogliosi di una svolta troppo timida e tardiva.
Il discorso cambia quindi come detto a livello regionale dove poco cambia, dove con una leggera ma percepibile crescita della partecipazione rispetto al 2015, si delineano delle interessanti affermazioni: Puglia, Campania, Liguria e Veneto.
Vanno analizzati insieme questi casi, in quanto presentano la riconferma del candidato uscente. Emiliano in Campania (csx) rifila 8 punti percentuali a Fitto (cdx), poco sopra il dieci percento invece Laricchia (m5s).
La scomposizione del Voto per Emiliano vede un perdita di consensi verso il PD, premiano il candidato invece le liste civiche che insieme superano i voti al partito di Zingaretti.
La minestra riscaldata Fitto invece vede un crollo di Forza Italia, un traino invece lo danno Lega e Fratelli d'Italia, anche qui il voto scomposto propone un paio di liste civiche di appoggio che insidiano il risultato di Forza Italia.
De Luca (csx) domina la scena annullando Caldoro (cdx) e Ciarambino (m5s).
Per il mattatore della Campania le liste Civiche di supporto la fanno da padrone, anche grazie ad un rapporto non proprio idilliaco con il PD.
A destra invece un crollo verticale di Forza Italia è attutito soltanto dall'incremento dei consensi di Fratelli d'Italia e dall'inserimento della Lega.
Toti (cdx) con i suoi 17 punti percentuali sopra Sansa (csx + m5s) acquista consensi nella riconferma.
La vittoria di Toti, unico centravanti Forza Italia tra le file del Centrodestra, palesa l'innata capacità di estraniarlo dal contesto politico nazionale, anche per lui vale il discorso delle liste civiche di supporto.
Numeri bulgari per Zaia (cdx) lascia le briciole a Lorenzoni (csx) e Cappelletti (m5s).
Il suo caso è esemplificativo, con la lista Civica di Zaia Presidente che domina, doppiando i voti per la Lega di cui è esponente.
Riconferma di coalizione in Toscana dove Giani (csx) prende il testimone di Rossi e supera di 8 punti la Ceccardi (cdx), Galletti (m5s) distantissima da entrambi.
Annullamento del Movimento 5 Stelle e Forza Italia, Lega e Fratelli d'Italia spingono il tentativo di portare al Centrodestra la roccaforte PD ma si scontrano con la realtà.
Il caso delle Marche fa da contro-altare alla Toscana, di fatto passando dalla coalizione di Centrosinistra a quella di Centrodestra. Mangialardi (m5s) perde undici punti percentuale rispetto ad Acquaroli (cdx), nessuna chance per Mercorelli (m5s).
Una vittoria soprattutto di Fratelli d'Italia, oltre a Lega e Forza Italia che violano una regione storicamente a guida PD nel cuore dell'Italia.
In conclusione nulla è decifrabile dalle elezioni in Valle d'Aosta, dove la Lega vince con il 23,90%, undici seggi che non permettono di rappresentare una maggioranza solida.
Infatti gli altri ventiquattro seggi si dividono in ordine sparso a liste tra le quali spiccano Union Valdotaine e Porgetto Civico Progressista a guida PD, entrambi si aggiudicano sette poltrone in consiglio, poco distanti tra loro Alliance Valdotaine con l'appoggio di Italia Viva, con quattro seggi mentre Valle d'Aoste Unie e Pour l'Autonomie del redivivo Augusto Rollandin (al momento sospeso fino a fine novembre), conquistano tre seggi ciascuno.
Un marasma dal quale è preventivabile un rimpasto, con la maggioranza che sarà quasi sicuramente a trazione Centrosinistra con un patto sulle autonomie poco concludente e poco distante dal recente passato istituzionale valdostano.
Ebbene Sì... abbiamo avuto la possibilità di votare e lo abbiamo fatto, adesso mettiamoci coraggio nel controllare che il legislatore rispetti il volere dei cittadini. Ritorniamo ad appassionarci della politica, indipendentemente da tessere e comizi, slogan e scandali, facciamo della politica il mezzo per raggiungere obiettivi, ridiscutere accordi e dar sfoggio di un sistema che funzioni.
Le speranze sono infinite, così come lo sono le risorse auto-conservative di una classe dirigente che ci ha abituati a tutto, dietrofront e ripensamenti, illusioni che nemmeno Houdini...
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